domenica 15 maggio 2011

Una nota di bianco

Non sono in grado, e probabilmente non lo sarò mai, di descrivere quali fiori, arbusti o alberi popolassero i giardini della mia infanzia. Ovviamente sono dotata del pacchetto di informazioni base: pini, resina, betulle, buganvillee, margherite. Questo sono in grado si raccontarlo un po' tutti. Nè posso descrivere i legni, le stoffe, i dipinti, i vetri, l'architettura di tutte le case in cui ho vissuto, se non sulla base di una rosa di sensazioni che sono  le mie e che poco hanno dell'oggettività che una vera descrizione richiede. è in realtà piuttosto opinabile che in una storia sia fondamentale descrivere nei minimi dettagli l'ambiente che circonda i personaggi, ma Jane Eyre sarebbe sempre Jane Eyre se non conoscessimo ogni singolo fiore del giardino di Mr. Rochester?
Tuttavia catturare l'essenza dei personaggi che attraversano le nostre vite mi è dato comunque, nonostante la mia inesperienza botanica e antiquaria. Perché l'immaginazione si accontenta anche solo di un gesto, del colore di un abito, di un sospiro malcelato per fare di un uomo un racconto.

Ero piccola. Due parole apparentemente insignificanti se non fosse che è solo da poco che nel pronunciarle non sento riecheggiare la voce di mio padre che mi ricorda: "Perché adesso cosa sei?"
Ero piccola e la domenica, che nella nostra famiglia non è mai stata dedicata al signore, era dedicata a me. E io ne dedicavo buona parte al rito della colazione.
Spesso questo rito veniva svolto nel ristorante di un albergo che ora  è stato abbattuto, che poco prima era frequentato perlopiù dalle prostitute e dai loro clienti, ma che ai tempi delle mie domeniche vantava lo chef-patissier migliore di Mosca.
In una sala che a me pareva enorme era allestito un buffet continentale la cui visione era sufficiente a rassicurarmi. Avevo fatto proprio bene a chiedere di tornare anche questa volta. Dico che bastava la sola vista perché in realtà per quanto riguardava il cibo la mia concentrazione era tutta dedicata a würstel e patatine fritte, con sporadiche eccezioni che mi vedevano intenta a spalmare sovrumane dosi di caviale nero su esili fette di pancarrè.
Tra una missione alla conquista del cibo e un'altra vagavo tra i tavoli, guardavo lo spettacolo dei burattini, mi abbandonavo a osservare i pesci nella fontana che campeggiava tra il tavolo dei dolci e quello delle ostriche aspettando il momento in cui sarebbe arrivato lui.
Sulla sala si affacciava una sorta di balconata (qui mi farebbe comodo qualche nozione di architettura in più) alla quale si accedeva tramite una scalinata sulla sinistra. In quel piano rialzato un pianoforte a coda. Bianco, bianchissimo, lucido. Bianco lo sgabello, bianca la balaustra che ne nascondeva parte alla vista, bianca la scalinata, e il pianista. Bianco, completamente. Praticamente albino, incorporeo nel suo abito bianco. Bianco come i capelli, come la pelle, le ciglia. Bianco come il pianoforte. Ma quando si sedeva di fronte al suo strumento fondendosi in esso come un unico, dinamico, blocco scultorio di marmo, ritrovava tutta la sua vitale materialità. E cominciava la musica. "Mmmmmm mm mm m, Mmmmm...mmm..".

Qual'è la storia di quest'uomo? Chi è quando non veste il candido frac del pianista? Quanto non è circondato da quel teatrale pallore? E improvvisamente il mio pianista della domenica mi racconta una storia triste, che parla di file per il pane e di un diffuso odore di verza stracotta. Una storia che non ha nulla a che vedere con la grande sala dell'Hotel Olimpisky ma con 16 mq divisi tra lui, il piano scordato, Natasha e il piccolo Misha.

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