lunedì 22 agosto 2011

Seduta ad Est

Io devo stare seduta qua, questo è il mio posto, sul lato est dell’isola.

Devo essere arrivata in un tempo in cui il mare era molto più alto o forse sono emersa insieme all’isola stessa e da quel momento non mi sono più mossa. Una conchiglia incastonata in una roccia, lontana dai flutti, irraggiungibile alle mani dei piccoli cacciatori di tesori estivi. Di notte dormo e di giorno guardo il mare fino a dove l’orizzonte lo concede, e guardo il sole e la notte che lo insegue nel suo viaggio.
Sto aspettando il tramonto perché ho sentito dire che è lo spettacolo più incantevole e struggente che gli occhi e l’anima possano contemplare. Ho sentito dire che il tramonto dipinge ogni cosa della sua luce calda e pastosa come marmellata di fragole, che gli innamorati si stringono mentre il sole nel suo tuffo acquista velocità.
Dove sono io, il sole non tramonta mai, lo vedo sorpassarmi per poi scomparire alle mie spalle ancora giovane, ancora giallo. Il suo appuntamento è con qualcun altro, un’altra costa, un’altra roccia, un’altra conchiglia. Di là aspettano per un motivo e vanno a dormire con le palpebre viola e porpora, tra nuvole di rubino e tutti i rosa che una bambina potrebbe desiderare per la sua stanza. Questo mi hanno detto.
Io invece chiudo gli occhi sulla nera notte, ma senza tristezza perché le stelle mi ammiccano e mi confortano. Coraggio mi dicono, magari domani. Magari domani capisce quanto sarebbe bella la tua roccia sotto la sua luce e che potrebbe gettare orgoglioso dello spettacolo i suoi raggi su di te. Coraggio.
E per anni, decine, forse centinaia di anni ho atteso, trattenendo il respiro se un cielo troppo nuvolo al mio risveglio copriva il sole, lasciandomi anche solo per un istante a sperare che fosse dietro di me per fare il suo giro al contrario. Ma ogni volta la delusione era pronta per affogarmi con la realtà. Non girava il sole, non girava l’isola e io, per quanto provassi, ero ormai fusa con la roccia sotto di me e non potevo girarmi in nessun modo. Forse neanche lo volevo, potermi girare per guardare di soppiatto il tramonto destinato ad altri.
Una sera mentre l’orizzonte si preparava alle stelle, un piccolo lembo di nube arancione si protese fin dove avrei potuto scorgerla e in quel momento quel piccolo assaggio del sogno che continuavo a sognare mi ruppe qualcosa dentro. Come un bacio leggero che dura troppo per essere il bacio di chi non può baciarti. E se una conchiglia potesse piangere è così che avrei fatto, avrei iniziato a piangere e forse anche a urlare, per la stanchezza, per l’impotenza, per la realtà di un sole che non può che tramontare ad ovest. E non avendo né voce né lacrime, mi disperai in silenzio, in quell’antro vuoto di madreperla che sono. Il mare era piatto di fronte a me ma se qualcuno mi avesse avvicinato l’orecchio avrebbe sentito burrasca, onde così violente che sembravano voler spezzare gli scogli. E per tutta la notte le stelle tacquero perché sapevano che il coraggio era finito e si stava sciogliendo in spuma di mare, che non potevano più ammiccare e che era tempo per soffrire e senza più provare a sorridere. Perdere le speranze, quando la speranza è l’unica cosa che si ha, ti apre un vortice dentro che risucchia verso il fondo ogni illusione e ogni ipotesi di un destino diverso. E il cielo scuro che non era di nessun aiuto. A disperarsi di giorno forse una nuvola a forma di elefante avrebbe portato un istante di pace dal dolore, o forse un gruppo di delfini che giocano tra le onde. La luna era scomparsa e io avevo smesso anche di gridare al vento l’ingiustizia, alla fine il rumore del mare era diventato una culla e come ogni culla aveva alleviato la parte più primitiva di un’impotenza che lentamente lasciava spazio alla rassegnazione. Sono passate ore, la mia prima notte senza sonno, ma poco importa visto che domani non avrò più motivo di guardare il cielo. Questo pensavo e proprio mentre rinunciavo all’orizzonte, l’orizzonte si trasformò in una linea opalescente. Da oltre il confine del mare la notte sbiadiva e il chiarore, tenue, passava dall’azzurro al giallo. E man mano che arrivava la luce si spegnevano le stelle, forse per non competere, perdenti predestinate, con la stella che stava arrivando. Ora anche la mia roccia splendeva, ogni piccola pozza d’acqua divenne iridescente, qualche granchio assonnato preparava la ritirata portandosi dietro la sua neonata e lunghissima ombra. I colori si risvegliarono, i blu tornarono a riempire lo spazio e ogni nube più bassa cambiava lenta la sua forma, vantando ognuna una sfumatura diversa. Il sole nasceva proprio davanti ai miei occhi, che se li avessi sarebbero stanchi di pianto e di veglia e ricomincerebbero a piangere davanti a questo spettacolo. Il sole emerge veloce e si ferma un istante sul margine dell’acqua, appoggiato in un equilibrio impossibile, immobile per lasciarsi guardare e per lasciarmi il tempo di sentire quello che muto mi sta dicendo.
Sciocca conchiglia, questo mi dice, aspettare per mesi il sole che scompare quando a tua disposizione avevi ogni giorno chi può illuminarti l’orizzonte. 
Sciocca conchiglia, questo mi dico, sciocca e fortunata conchiglia, con l’alba negli occhi.

lunedì 8 agosto 2011

Tirando le somme (estratto) - Opa

...Ovviamente ho anche dei nonni paterni, di cui ammetto di non aver mai capito il vero nome. Per me sono sempre stati Nonno Opa e Nonna Oma (rispettivamente, traducendo dall’olandese, Nonno Nonno e Nonna Nonna) e ognuno li chiama in modo diverso. Non ho mai nemmeno ben capito la formazione di zii in mio possesso. Mio padre ha otto fratellastri, che è indubbiamente un ottimo incipit per una fiaba dei fratelli Grimm, nati dai vari matrimoni di mia nonna e di mio nonno. Però è anche figlio unico, perchè è l’unico ad essere figlio di entrambi. Di questi otto, o forse sette, almeno tre credo di non averli mai visti. Le uniche cose che so per certo e che mi servono ad identificarne alcuni durante le riunioni di famiglia, è che uno vede gli gnomi, una è schizofrenica, una fa il ministro e uno è troppo anziano per essere veramente uno zio.
Nonno Opa purtroppo è morto quando io avevo tre o quattro anni. Quando è successo non avevo modo di esserne dispiaciuta, in fondo lo avevo visto poco e nella bara di vetro con tutti i fiori intorno mi sembrava sereno con quella scenografia alla Biancaneve. Più passa il tempo invece più mi dispiace perchè un po’dai racconti, un po’dalle foto e un po’ dalle cose che ha lasciato credo che saremmo andati molto d’accordo. Era un creativo, in piccolo senza dubbio, ma scriveva poesie, scriveva per il teatro, studiava, aveva un sacco da fare. Quando sono nata ha iniziato a studiare l’italiano per poter parlare con me ma non abbiamo mai fatto in tempo a parlare davvero. 
Però il desiderio di imparare una lingua per amore è una cosa di me che avrebbe capito e per questo un po’ mi manca. 
Facendo ancora un passo all’indietro nel mio albero genealogico le informazioni iniziano a farsi scarse e soprattutto iniziano ad assomigliare sempre di più a delle telenovelas brasiliane. Ci sono ad esempio dei grandi sospetti su chi sia il vero padre di nonno Opa, data la sua inquietante somiglianza con il macellaio ebreo del quartiere. A supportare questa tesi c’è il fatto che anche suo fratello non assomigliava per niente al padre mentre ricordava alquanto il signore a cui la mia bisnonna aveva affittato per un periodo una stanza. Non sapremo mai quanto di vero ci sia in questa storia, ma ci crediamo tutti al punto da rivendicare con convinzione origini ebraiche se si tratta di lavorare durante lo shabat o di mettere mano al portafogli, cosa che facciamo malvolentieri per evidenti motivi genetici. Sulla carne di maiale chiudiamo un occhio, anche se io personalmente non l’ho mai amata granchè.
Nonna Oma non so bene che persona sia, l’olandese per me è un grande ostacolo a meno che non si parli di cibo e la rarità degli incontri non aiuta. Deve aver avuto una vita bella intensa, con tutti quei figli e quei mariti. Con il primo ha vissuto alcuni anni in Indonesia. Anche se il paese aveva ottenuto l’indipendenza, continuavano ad affidare ad iniziative straniere allevamenti e colture e, come in qualunque altra colonia, la vera autonomia venne raggiunta molto lentamente. Quello che ne rimane è il ricordo di un serpente enorme attorcigliato sul filo del bucato e il fatto che in casa la parola “piccante” continua a essere detta in indonesiano invece che in olandese. Per vostra cultura, nel caso ne voleste fare un trend, si dice “pedis” con la “e” quasi muta. Immagino vi tornerà estremamente utile. L’esperienza indonesiana della mia famiglia annovera anche uno zio in un campo di concentramento durante l’occupazione giapponese e io che mi dò un remo in faccia da sola durante un rafting in un torrente a Bali. Del secondo episodio rimane solo una cicatrice sul naso, mentre del primo una certa intolleranza di famiglia verso i giapponesi in generale, che ora vanno tanto di moda perchè nessuno si ricorda che durante la seconda guerra mondiale hanno saputo essere più nazisti dei tedeschi. I tedeschi invece non si puliranno mai la coscienza di fronte alla nostra famiglia, e questo per aver rubato una bicicletta al mio bisnonno. Da lì, per estensione, mio padre ritiene che ogni tedesco ne debba una ad ogni olandese. Poichè gli olandesi sono circa 16 milioni, e loro una cinquantina, il deficit della bilancia biciclette Teutonica-Olandese è approssimativamente di 800.000.000.000.000 di bici. Una ne hanno ufficialmente ridata l'anno della Riunificazione Tedesca. Rimangono, sempre per approssimazione 799.999.999.999.999 bici...

lunedì 4 luglio 2011

Mirella


Che ce sta il giornale, Mirè?
Sì c'è Chi.
E che dice il giornale, Mirè?
E che Travaglio sta in vacanza con la moglie.
Ah... e dove, Mirè?
A Varigotti.
A Barigotti, Mirè?
V-V-Varigotti.
E dov'è che sta? Lo dice il giornale, Mirè?
In Liguria.
Ah vedi, e io non lo sapevo. E mo lo sappiamo. Bene.

Storia piccola, piccolissima, microscopica.


Non è mia, ma quando me l'hanno raccontata a me è piaciuta da morire e mi sono permessa di trascriverla. Forse perchè a me le storie con i papà mi fanno sempre uno strano effetto, e un po'di umido tra le ciglia.

Sei piccolo, sei in macchina con tuo papà, ti sta portando a giocare a baseball.
Ti ci porta tutte le settimane e tutte le settimane, per arrivare, bisogna passare con la macchina sotto un vecchio ponte. L’arcata è stretta e la macchina è grande. O forse sembra grande a te che sei piccolo. Però anche tuo papà, che è grande, ti ha sempre detto che l’arcata è stretta e che la macchina potrebbe incastrarsi.
Per fortuna che lui è grande e sa risolvere queste situazioni. La macchina deve diventare un po’ più piccola e allora non succederà nulla, ma bisogna farcela diventare più piccola la macchina. 
Allora bisogna pensare a cose piccolissime e dirle tutte fino a che non si supera il ponte, ed è una responsabilità enorme visto che lo devi fare tu perchè papà è grande e sta guidando. 
E poi tu sei piccolo e di cose piccole ne sai molto di più.
Ecco di nuovo, ci siamo. 
Il ponte, l’arcata stretta, la macchina grande e devi pensare veloce e parlare a voce alta. 
Cose piccole.
Formica! Formica! Pulce! Microbo! Zanzara! Microbo piccolissimo!
È andata, siete diventati piccoli e siete passati anche stavolta. Meno male.
A volte le cose piccole sanno fare grandi cose.

domenica 15 maggio 2011

Una nota di bianco

Non sono in grado, e probabilmente non lo sarò mai, di descrivere quali fiori, arbusti o alberi popolassero i giardini della mia infanzia. Ovviamente sono dotata del pacchetto di informazioni base: pini, resina, betulle, buganvillee, margherite. Questo sono in grado si raccontarlo un po' tutti. Nè posso descrivere i legni, le stoffe, i dipinti, i vetri, l'architettura di tutte le case in cui ho vissuto, se non sulla base di una rosa di sensazioni che sono  le mie e che poco hanno dell'oggettività che una vera descrizione richiede. è in realtà piuttosto opinabile che in una storia sia fondamentale descrivere nei minimi dettagli l'ambiente che circonda i personaggi, ma Jane Eyre sarebbe sempre Jane Eyre se non conoscessimo ogni singolo fiore del giardino di Mr. Rochester?
Tuttavia catturare l'essenza dei personaggi che attraversano le nostre vite mi è dato comunque, nonostante la mia inesperienza botanica e antiquaria. Perché l'immaginazione si accontenta anche solo di un gesto, del colore di un abito, di un sospiro malcelato per fare di un uomo un racconto.

Ero piccola. Due parole apparentemente insignificanti se non fosse che è solo da poco che nel pronunciarle non sento riecheggiare la voce di mio padre che mi ricorda: "Perché adesso cosa sei?"
Ero piccola e la domenica, che nella nostra famiglia non è mai stata dedicata al signore, era dedicata a me. E io ne dedicavo buona parte al rito della colazione.
Spesso questo rito veniva svolto nel ristorante di un albergo che ora  è stato abbattuto, che poco prima era frequentato perlopiù dalle prostitute e dai loro clienti, ma che ai tempi delle mie domeniche vantava lo chef-patissier migliore di Mosca.
In una sala che a me pareva enorme era allestito un buffet continentale la cui visione era sufficiente a rassicurarmi. Avevo fatto proprio bene a chiedere di tornare anche questa volta. Dico che bastava la sola vista perché in realtà per quanto riguardava il cibo la mia concentrazione era tutta dedicata a würstel e patatine fritte, con sporadiche eccezioni che mi vedevano intenta a spalmare sovrumane dosi di caviale nero su esili fette di pancarrè.
Tra una missione alla conquista del cibo e un'altra vagavo tra i tavoli, guardavo lo spettacolo dei burattini, mi abbandonavo a osservare i pesci nella fontana che campeggiava tra il tavolo dei dolci e quello delle ostriche aspettando il momento in cui sarebbe arrivato lui.
Sulla sala si affacciava una sorta di balconata (qui mi farebbe comodo qualche nozione di architettura in più) alla quale si accedeva tramite una scalinata sulla sinistra. In quel piano rialzato un pianoforte a coda. Bianco, bianchissimo, lucido. Bianco lo sgabello, bianca la balaustra che ne nascondeva parte alla vista, bianca la scalinata, e il pianista. Bianco, completamente. Praticamente albino, incorporeo nel suo abito bianco. Bianco come i capelli, come la pelle, le ciglia. Bianco come il pianoforte. Ma quando si sedeva di fronte al suo strumento fondendosi in esso come un unico, dinamico, blocco scultorio di marmo, ritrovava tutta la sua vitale materialità. E cominciava la musica. "Mmmmmm mm mm m, Mmmmm...mmm..".

Qual'è la storia di quest'uomo? Chi è quando non veste il candido frac del pianista? Quanto non è circondato da quel teatrale pallore? E improvvisamente il mio pianista della domenica mi racconta una storia triste, che parla di file per il pane e di un diffuso odore di verza stracotta. Una storia che non ha nulla a che vedere con la grande sala dell'Hotel Olimpisky ma con 16 mq divisi tra lui, il piano scordato, Natasha e il piccolo Misha.

lunedì 2 maggio 2011

Questi sono mesi muti.

C'è una citazione di Kundera, una foto di Daguerre,  i ricordi di un estraneo. Un gran casino. Muto. L'idea bizzarra della Madonna accampata in un cratere lunare, un ciondolo che non è di brillanti ma dice di esserlo, c'è la storia di un uomo che parla con i gatti e di un altro che non fa l'amore con una donna che a letto legge Marx. Dei pini rubati dalle radici del Vesuvio. Ci sono parole di cui non trovo l'inverso, altre di cui non capisco il significato. Ci sono uomini che dipingono il miglior futuro possibile e donne fatte di cielo. Rabbini che volano e mucche che suonano il violino. C'è un enorme buco nero in cui destra e sinistra sprofondano continuamente. C'è un gatto. C'è una ragazza che non paga per ridere. La gioia di non ricordare un profumo. Milioni di domande, milioni. La paura del tempo che passa senza portare risposte. Il vuoto da riempire. Il vuoto che cresce proporzionalmente a ciò con cui lo riempi. Il bisogno di svuotare quel vuoto. Basterebbe un solo spettatore per fare di ogni pezzo di carta una tela, di ogni parola una poesia. Tutto è inutile, nulla è inutile. Un mare di latte intorno. Silenzio bianco.
Se mi perdo mi hanno detto di rimanere ferma dove sono, e aspettare. Non mi hanno mai detto quanto. 

domenica 17 ottobre 2010

Domenica 18.32

C'è un re di cuori sul ripiano di marmo sopra il camino. È impolverato, dimenticato là chissà da quando. È solo, non ho visto un mazzo di carte in tutta la casa. E lui l'ho visto all'ultimo, prendendo la porta.
È così che una carta diventa un segnale, quando lei si perde e tu la stai cercando.
Quando è una risposta che sembra conoscere la domanda.
Parto, mi lascio il mare d'ottobre alle spalle e anche quella carta, posata là, un dito di polvere in meno sull'angolo destro. Però per un attimo ho lasciato che mi parlasse e allora il re di cuori, l'uomo gentile, senza dire altro, ha annuito. Impercettibilmente.